Il contratto “a tutele crescenti” del Jobs Act al giudizio della Corte costituzionale

Vi segnaliamo il comunicato stampa del 28 luglio scorso della CGIL su Rassegna Sindacale (cfr. link in sezione “collegamenti” qui sotto).

Una giudice del Tribunale di Roma, in relazione ad una vertenza promossa dalla CGIL per licenziamento illegittimo, ha deciso di sottoporre il contratto “a tutele crescenti” del Jobs Act al giudizio della Corte costituzionale, per violazione degli articoli 3, 4, 35, 117 e 76 della Costituzione.

La Cgil ha fin dall’inizio considerato negativamente la complessiva riforma del Jobs Act poiché collega le assunzioni a tempo indeterminato all’indebolimento delle tutele nel caso d’ingiusto licenziamento.

Infatti, il Jobs Act prevede per i soli lavoratori assunti (ma non necessariamente neo assunti, attenzione!) dopo il 7 marzo 2015, l’eliminazione totale della tutela reale prevista dallo Statuto dei Lavoratori in caso di licenziamento illegittimo: non c’è più la facoltà per il lavoratore/lavoratrice di chiedere il reintegro nel posto di lavoro ma soltanto un risarcimento monetario fino a un importo pari a 4 mensilità.

E’ evidente come la posizione di tutti i lavoratori ne esca indebolita ed è evidente anche l’eliminazione di un’importante funzione di deterrenza, garantita dalla tutela “reale” del reintegro nel posto di lavoro.

La giudice romana, dott.ssa Cosentino, sottolinea, in modo puntuale, i punti fondamentali per i quali tale decreto contrasta con molti principi costituzionali, come la CGIL sostiene fin dall’introduzione della legge.

In particolare:

per quanto riguarda la violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) l’importo dell’indennità risarcitoria stabilita dalle norme del c.d. Jobs Act non ha carattere né compensativo del danno subito dal lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, né dissuasivo nei confronti dei “licenziamenti facili”, con possibili conseguenze discriminatorie (un lavoratore “a tutele crescenti” sarà, infatti, certamente più esposto al licenziamento illegittimo rispetto agli altri).
Lo stesso articolo 3 della Costituzione, cardine del
principio di uguaglianza, è violato in quanto l’eliminazione totale della possibilità, da parte del giudice, di modulare il risarcimento in relazione al singolo lavoratore finisce per disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili fra loro: ad esempio, un banale ritardo sul lavoro potrebbe essere sanzionato con il licenziamento e il giudice non potrebbe annullarlo ritenendolo una sanzione eccessiva.
Gli articoli 4 e 35 della Costituzione, che tutelano
il diritto al lavoro come valore fondante della Carta, sono sostanzialmente disattesi in quanto la perdita illegittima del lavoro viene monetizzata con un controvalore irrisorio e fisso.
C’è infine il contrasto con gli art. 117 e 76 della Costituzione, poiché la
sanzione per il licenziamento illegittimo appare inadeguata rispetto a quanto stabilito da fonti sovranazionali come la Carta di Nizza e la Carta Sociale europea.

La pronuncia del Tribunale di Roma rappresenta, quindi, un significativo passo nella direzione auspicata dalla Cgil e consente di portare il contratto a tutele crescenti, tramite un singolo ricorso (cui auspichiamo ne possano seguire altri), alla valutazione della Corte Costituzionale.
Si tratta di una delle strade che continueremo a percorrere, insieme al reclamo per la violazione della Carta Sociale Europea e al contrasto tramite la contrattazione collettiva, per arrivare al ripristino di norme che consideriamo fondamentali principi di civiltà.

Settembre 2017
La Segreteria di Gruppo

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