Come sanno ormai anche i sassi, l’irresponsabile atteggiamento di ABI nel rinnovo del Contratto di lavoro ha prodotto l’interruzione delle relazioni sindacali, con un effetto a valanga che si è manifestato nel Gruppo ed anche in UPA. Le osservazioni che qui avanziamo non sono pertanto frutto del normale confronto con la Direzione, ma derivano da alcune preoccupazioni che vorremmo diventassero oggetto di riflessione comune.
Intanto: 3000 posti di lavoro andranno persi per sempre. Chi si aspettava una stangata peggiore può anche tirare un sospiro di sollievo. Ma per altre 3000 ragazze/i (potrebbero essere nostri figli, nostri amici o illustri sconosciuti: non cambia niente) si chiudono importanti possibilità. Con l’aria che tira non ci pare che ci sia da essere allegri.
E i 3000 posti persi? Prepensionamenti incentivati! Ma: incentivati di quanto? Più del 32,70% di superbonus esentasse offerto dalla Legge Delega sulle pensioni a chi vuole rimanere (non a chi vuole andarsene)? E se i soldi stanziati (da un Gruppo che dice di avere maledettamente bisogno di risparmiare) non bastano, che si fa? Ci sembra che troppi inni alla gioia siano stati intonati senza sapere nemmeno che cosa ci sia da gioire.
Facciamo finta per un momento che tutto questo non riguardi UPA, come sempre prima della classe anche nelle tempeste. Parliamo di noi.
Per cominciare: il lavoro di circa 200 persone va a Bucarest. “Circa” perché le slides, inglesi e italiane, non sono chiarissime e alcuni uffici sembrano contati due volte. Cosa faranno i 200 senza lavoro? Saranno riconvertiti. Verso che cosa? Le altre PU non sembrano versare nell’urgentissima necessità di risorse aggiuntive. E allora? Riconvertìti verso la formazione? E’ una sfida intelligente che UPA saprà certamente cogliere, ma che, da sola, non basta a soddisfare la fame di lavoro di questa Società. Riconvertìti verso il lavoro che arriverà dai Centri Esteri della Rete? Speriamo. Noi sappiamo soltanto che, accanto ad operazioni che hanno portato lavoro in UPA (le tesorerie, ad esempio) molte altre (quelle delle Lettere di Credito a Milano o di Xelion a Torino, per citarne alcune) vanno esattamente nella direzione opposta: il lavoro è andato via da UPA, non è arrivato. Speriamo che il vento cambi: saremo i primi a rallegrarci nel vedere che questa Società fa in inverno l’esatto contrario di quello che ha fatto in primavera. Ci ha abituato a ben altro. Ma non siamo tranquilli. Il lavoro che esce è una certezza, quello che deve arrivare una speranza.
E Bucarest? Molti lavoratori si sentono orgogliosi di questa scelta perché “il lavoro di UPA viene finalmente riconosciuto, il nostro modello organizzativo viene esportato e diventiamo una Società multinazionale” e perché “andiamo a portare lavoro a chi ne ha bisogno”. Si tratta di sentimenti che rispettiamo: sono alimentati da un clima aziendale che, sul versante dell’orgoglio di squadra, sta giocando moltissime delle sue carte (e investendo molti dei suoi quattrini) e testimoniano un atteggiamento mentale bello e positivo. A questi colleghi vogliamo dire: proviamo a riflettere insieme.
Per cominciare: nessuno, ma proprio nessuno, ha mai detto che l’operazione in corso sia qualcosa di diverso da una manovra di taglio dei costi, originata da un supposto esaurimento delle possibilità della leva dei ricavi. Avremmo voluto vedere la faccia degli analisti finanziari convocati a Lesmo se avessero tentato di farglielo credere (!). La missione umanitaria, dunque, non esisteva nemmeno nella testa di chi ha inventato la manovra. Non si vede perché quella curiosa teoria dovrebbe trovare credito proprio da noi.
E ancora: perché un’UPA in Romania, dove il Sindacato è quello che è, e non in Polonia dove la situazione è un po’ diversa, anche se Unicredit è riuscita a lasciare a casa migliaia di persone che, almeno in parte, potevano essere recuperate in un Centro Servizi? Strano questo modo di essere sociali in un Paese ed antisociali in un altro.
Esportiamo un modello organizzativo vincente? Il ragionamento non farebbe una piega se UPA Romania facesse solo back-office per le Banche della New Europe. Poteva essere una buona idea sulla quale ragionare.
Il fatto è che fa anche il back-office “italiano”. Questo non vuol dire esportare un modello vincente. Vuol dire far fare il lavoro ad un costo più basso.
Infine: che cosa ci aspetta in prospettiva? Viste le infami condizioni salariali romene e lo stato delle tutele sociali di quel Paese, è così fuori luogo pensare che, col trascorrere del tempo, saranno sempre più numerose le lavorazioni trasferite a Bucarest? O, per dirla in altri termini: se oggi siamo preoccupati in 200, in quanti dovremo essere preoccupati domani? Perché qualcuno dovrebbe essere così stupido da dare lavoro a noi quando può farlo fare da un altro ad un costo infinitamente inferiore?
Ma, si dice, così va il mondo: si tratta di processi inarrestabili. Non ne siamo così sicuri. Cambiando l’ambito geografico, è un po’ il discorso della “sfida cinese”. L’Italia la sta perdendo perché passa il tempo a piagnucolare su chi costruisce stringhe da scarpe al prezzo minore; Francia e Germania la stanno vincendo perché, con la Cina, fanno accordi commerciali, le vendono centrali, tecnologia, saperi, sistemi satellitari.
Insomma: nell’affrontare le sfide ci sono sempre due strade, quella dell’innovazione e dello sviluppo e quella della compressione dei costi (le si chiama spesso rispettivamente via alta e via bassa). Siccome vogliamo molto bene a questo gruppo e a questa Azienda, se si vuole discutere di innovazione e sviluppo siamo pronti a sederci intorno ad un tavolo. Ma, se si inverte la rotta di 180° rispetto al passato e l’orizzonte che ci si propone è quello della compressione dei costi e basta, la nostra risposta sarà adeguata.
Abbiamo fatto non uno, ma mille accordi nei quali il contenuto sociale (la salvaguardia dei posti di lavoro) era evidente, per quanto pudicamente celato nelle righe contorte delle intese. E’ inutile nascondersi che UPA nasce anche da lì. Per quanto ci riguarda sono accordi che rifaremmo anche oggi. Ma qui siamo su un altro terreno: fare quadrare i conti facendo finta che si sta facendo un’altra cosa: aiutare chi ha bisogno. Non è bello.
Forse non a tutti è chiarissimo, ma alcune decine di migliaia di bancari, in tutta Italia, stanno guardando a noi col timore che, se si apre qui una piccola falla, questa possa trasformarsi per strada in una voragine. Noi siamo contro il dissesto idro-geologico.